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La rappresentazione in un caso particolare nelle successioni a causa di morte

PREMESSA

Queste brevi considerazioni nascono dall’esigenza di valutare – cercando quante più argomentazioni possibili da vagliare – una fattispecie non frequente, ma di possibile applicazione (soprattutto quando ci si trovi di fronte a famiglie numerose e che vedano fratelli con forti differenze d’età).

 

Prima di illustrare la fattispecie, sembra opportuno ricordare il meccanismo della rappresentazione.

 

Esso è disciplinato negli artt. 467 ss. c.c. (nel Titolo I relativo alle «Disposizioni generali sulle successioni», giacché operante sia in caso di successione legittima (art. 467, comma 1 c.c.) sia in caso di successione testamentaria (art. 467, comma 2 c.c.) ove, in quest’ultimo caso, il testatore non abbia già previsto una sostituzione, e sempreché non si tratti di legato di usufrutto ovvero di legato di «altro diritto di natura personale»1.

 

La rappresentazione è uno strumento della delazione legittima, anche quando opera in aggancio ad una vocazione testamentaria (quella del rappresentato), giacché questo meccanismo è previsto dalla legge ed opera una chiamata della legge (infatti, quando rileva la volontà del testatore, è perché essa ha derogato alla rappresentazione, ad es. mediante la sostituzione: art. 467, comma 2 c.c.).

 

Cosa esattamente comporta la rappresentazione? Essa «fa subentrare i discendenti nel luogo e nel grado del loro ascendente, in tutti i casi in cui questi non può o non vuole3 accettare l’eredità o il legato» (art. 467, comma 1 c.c.).

Quindi, quando opera la rappresentazione, il discendente viene chiamato alla successione (sia a titolo universale sia a titolo particolare) nello stesso luogo e grado (ossia, con lo stesso contenuto ed i stessi caratteri che avrebbe avuta la delazione dell’ascendente) in cui si sarebbe trovato l’ascendente che, però, non può o non vuole accettare l’eredità o il legato.

 

Non è questo il momento di analizzare con la massima precisione (anche perché la dottrina lo ha già fatto) quali siano i casi in cui scatti il «non può» o il «non vuole». Basti qui richiamare le due ipotesi normali: per il «non può», il caso della premorienza del soggetto chiamato rispetto al soggetto della cui successione si sta trattando; per il «non vuole», il caso della rinuncia all’eredità (o rifiuto del legato) del detto soggetto chiamato (o beneficiario del legato).

 

Chi sono i soggetti (sia come rappresentati, sia come rappresentanti) che rilevano nella rappresentazione?

L’art. 468 c.c., rubricato appunto «Soggetti», risponde a questa domanda.

La rappresentazione ha luogo (nella linea retta) a favore dei discendenti dei figli (anche adottivi) del defunto e (nella linea collaterale) a favore dei discendenti dei fratelli e delle sorelle del defunto.

 

Che significa che la rappresentazione «ha luogo […] a favore»?

Significa che la rappresentazione (che «fa subentrare i discendenti nel luogo e nel grado del loro ascendente», ex art. 467, comma 1 c.c.) causa la chiamata, appunto, «a favore» dei soggetti elencati sopra. Cioè, «a favore» indica nei confronti di chi la chiamata ereditaria opererà, in luogo («nel luogo e nel grado») del rispettivo ascendente.

 

Pertanto, se la rappresentazione opera a favore dei discendenti dei figli del defunto e a favore dei discendenti dei fratelli e delle sorelle del defunto, abbiamo individuato la categoria dei rappresentanti e dei rappresentati.

I rappresentanti sono coloro che – appunto in rappresentazione – “sostituiscono”2 i rispettivi ascendenti, quando questi non possano o non vogliano accettare l’eredità o il legato.

I rappresentati sono coloro che “vengono sostituiti”.

 

I rappresentanti sono allora i discendenti dei figli e i discendenti dei fratelli e delle sorelle della persona scomparsa.

I rappresentati sono invece, e appunto, i figli e i fratelli e le sorelle del defunto.

 

Per ricapitolare.

Quando viene chiamato all’eredità, ovvero beneficiato di un legato (salvo sempre l’art. 467, comma 2 c.c.), un soggetto che rientri tra i figli oppure tra i fratelli e le sorelle della persona defunta, parte un primo presupposto (soggettivo) per l’operare della rappresentazione.

Ove, poi, quel soggetto non possa (es., è morto prima della morte della persona defunta della cui successione ci stiamo occupando) ovvero non voglia (rinuncia all’eredità o rifiuta il legato) accettare l’eredità o il legato, in forza della rappresentazione, saranno chiamati all’eredità i discendenti di questo soggetto.

 

Quali discendenti? In che quote?

 

A queste domande, si risponde leggendo anche l’art. 469 c.c., che recita:

«La rappresentazione ha luogo in infinito, siano uguali o disuguali il grado dei discendenti e il loro numero in ciascuna stirpe.

La rappresentazione ha luogo anche nel caso di unicità di stirpe.

Quando vi è rappresentazione, la divisione si fa per stirpi.

Se uno stipite ha prodotto più rami, la suddivisione avviene per stirpi anche in ciascun ramo, e per capi tra i membri del medesimo ramo».

 

Alla domanda «Quali discendenti?» dobbiamo allora rispondere nel senso che:

 

- la rappresentazione ha luogo in infinito: pertanto, non è prevista una limitazione riguardo alla lontananza di grado tra la persona defunta e il rappresentante: può trattarsi del nipote ex filio o ex fratre; del pronipote ex filio o ex fratre; di un pro-pronipote (ex filio o ex fratre). Questo è importante, atteso che la rappresentazione non segue la regola per cui il parente prossimo esclude quello più lontano (in base alla lontananza del grado), ma consente che, per rappresentazione, un chiamato più lontano in grado sia preferito ad uno più vicino.

 

Es., una persona lascia a succedergli un pronipote ex fratre (de cuius-padre-fratello-nipote-pronipote) ed uno zio paterno (de cuius-padre-nonno-zio). Per l’operare della rappresentazione, è preferito il pronipote ex fratre, parente di quarto grado in linea collaterale, allo zio, parente di terzo grado in linea collaterale.

 

Questo sembra, dunque, il significato da ascrivere all’operatività in infinito della rappresentazione. Ma continuiamo con la risposta alla domanda di sopra.

 

- la rappresentazione ha luogo siano uguali o disuguali il grado dei discendenti e il loro numero in ciascuna stirpe. Se l’affermazione di cui al trattino precedente serviva a spiegare in che rapporto si trovasse la persona rappresentante in relazione ad altri possibili successibili di grado poziore (come illustrato sopra nell’esempio del pronipote e dello zio), l’affermazione di cui al presente trattino induce invece a riflettere sull’eventuale gareggiamento tra i vari soggetti rappresentanti.

Anche in questo caso, sia concesso un esempio.

 

La persona defunta lascia quattro nipoti e due pronipoti, tutti ex filiis: due nipoti dal primo figlio premorto; un nipote dal secondo figlio rinunciante e tre restanti pronipoti, figli del nipote, premorto, a sua volta figlio del terzo figlio, anche lui premorto.

Come si vede, ci sono tre stirpi (in relazione al primo, al secondo e al terzo figlio).

I nipoti ex filiis sono tutti parenti di secondo grado in linea retta. Invece, i pronipoti ex filiis sono parenti di terzo grado in linea retta.

La disciplina della rappresentazione prescrive che la stessa opera anche quando i soggetti rappresentanti abbiano fra di loro gradi diversi (come in questo caso), ed a prescindere dal se il numero di rappresentanti sia o meno uguale in ciascuna stirpe.

Difatti, nel nostro caso, chiamati all’eredità (il discorso quote lo affrontiamo dopo) saranno tutti e sei i soggetti, nonostante tra di loro siano di grado diverso (nipoti e pronipoti) e nonostante che per ogni stirpe ci sia un numero diverso di rappresentanti (per il primo figlio: due rappresentanti; per il secondo: un rappresentante; per il terzo: tre rappresentanti).

 

- infine, la rappresentazione opera anche in caso di unicità di stirpe. Pertanto, se una persona lascia quattro nipoti ex filio, figli dell’unico figlio premorto, essi saranno chiamati per rappresentazione del suddetto figlio premorto.

 

Rispondiamo ora alla domanda: «In che quote?»

 

Come abbiamo individuato sopra, la rappresentazione fa subentrare i discendenti (dei figli o dei fratelli e delle sorelle del de cuius) nel luogo e nel grado del loro ascendente (art. 467, comma 1 c.c.).

Inoltre, «Quando vi è rappresentazione, la divisione si fa per stirpi» (art. 469, comma 3 c.c.).

Da ciò, deriva che i soggetti che rappresentano la stessa persona (es., tutti i figli di un figlio premorto) subentrano nella stessa quota che sarebbe spettata al loro ascendente (evidentemente, divisa in parti uguali fra i vari discendenti).

 

Es., la persona defunta lascia un coniuge, un figlio che accetta, un figlio che rinuncia all’eredità ed ha un figlio premorto. Ex art. 581 c.c., al coniuge spetta una quota di un terzo; ai figli, la residua quota di due terzi, da dividersi in parti uguali (e quindi, due noni ciascuno).

Il figlio che rinunzia ha a sua volta tre figli, che accettano l’eredità. Il figlio premorto ha un solo figlio, che anch’egli accetta l’eredità.

Dovendo i rappresentanti subentrare nella quota del loro rispettivo ascendente: i tre figli del figlio rinunciante subentreranno nella quota di due noni che sarebbe spettata a quest’ultimo, conseguendo dunque ciascuno due ventisettesimi. Il figlio del figlio premorto, invece, conseguirà la quota di due noni.

 

 

LA RAPPRESENTAZIONE “SUCCESSIVA”

E veniamo dunque al caso particolare.

 

Tizio muore. Un fratello (Caio) è in vita. Un fratello (Mevio) rinuncia all’eredità. Un fratello (Imio) è premorto.

Mevio ha a sua volta due figli (Meviolino e Meviolina). Meviolino ha a sua volta un figlio (Mevino).

Imio ha un nipote ex filio (Imino), essendogli premorto il figlio (Imiolino).

 

Operando la rappresentazione, essa fa subentrare nel luogo e nel grado:

- di Mevio, i discendenti (del detto fratello Mevio) Meviolino e Meviolina;

- di Imio, il discendente (del detto fratello Imio) Imino.

 

La domanda da cui parte questo insieme di considerazioni è la seguente: se Meviolino rinuncia all’eredità, si ha rappresentazione a favore di Mevino4?

 

Alla domanda – cui non può purtroppo rispondersi, come a volte conviene fare, con un “dipende” – è possibile dare una risposta positiva ovvero negativa, chiarendosi sin da subito che, per i motivi che si diranno oltre, a me sembra preferibile la seconda soluzione.

 

OPERA LA RAPPRESENTAZIONE

Al fine di rispondere in via positiva, si potrebbe sostenere quanto segue.

 

In primis, si potrebbe dire che proprio questo è il significato della formula per cui «La rappresentazione ha luogo in infinito» (art. 469, comma 1 c.c.).

 

In secondo luogo, l’art. 467, comma 1 c.c. non specifica che il subentro dei discendenti debba essere limitato a quelli tra i discendenti che siano i primi chiamati. Solo se fosse espressa questa limitazione, si avrebbe la conseguenza che, ove i discendenti primi chiamati siano a loro volta altri discendenti (come nel caso di Meviolino), non sarebbe possibile la rappresentazione a favore di questi ulteriori altri discendenti.

 

In terzo luogo, neanche l’art. 468, comma 1 c.c. specifica che il subentro dei discendenti debba essere limitato ai soli primi discendenti che si trovino primi chiamati in rappresentazione.

 

In quarto luogo, se si dovesse sostenere che i discendenti del discendente rinunciante non vengano, a loro volta, chiamati alla successione, si avrebbe una disparità di trattamento con i discendenti del discendente premorto. Infatti, questi ultimi vengono alla successione (è, per es., il caso di Imino, che è discendente di un discendente (Imiolino) del fratello (Imio) del de cuius).

 

In quinto luogo, per la rappresentazione non è stata prevista una regola come quella di cui all’art. 479, comma 2 c.c., che regola il caso in cui qualcuno degli “ulteriori delati” non voglia accettare l’eredità.

 

In sesto luogo, l’art. 521, comma 1 c.c. prescrive che «Chi rinunzia all’eredità è considerato come se non vi fosse mai stato chiamato». Conseguentemente, il discendente rinunciante si dovrebbe considerare tale, per cui egli non figurerebbe più come discendente primo chiamato, ma – diciamo così – si dissolverebbe, facendo divenire primo chiamato l’ulteriore discendente.

 

In settimo luogo, l’art. 522, comma 1, primo periodo c.c. afferma che «Nelle successioni legittime [come è la rappresentazione, per quanto detto sopra] la parte di colui che rinunzia si accresce a coloro che avrebbero concorso col rinunziante, salvo il diritto di rappresentazione […]». Conseguentemente, è fatto salvo appunto che un discendente sia a sua volta rappresentabile, e così via.

 

Infine, la politica legislativa che ha guidato – da sempre – la rappresentazione, consistente nel lasciare l’eredità all’interno di una certa “direzione” familiare, sarebbe sminuita da un’interpretazione che non consentisse l’operare della rappresentazione anche a favore dei discendenti dei discendenti.

 

NON OPERA LA RAPPRESENTAZIONE

Al fine di rispondere negativamente, si sostiene quanto segue.

In risposta all’in primo luogo, si è già affermato che il significato dell’operare della rappresentazione in infinito è quello di consentire che qualsiasi discendente, del fratello o sorella o figlio del de cuius, possa venire alla successione per rappresentazione, anche quando il suo grado sia più lontano rispetto a quello di un altro parente che, invece, non fruendo del collegamento di discendenza con i soggetti rappresentabili, sarà appunto scavalcato dal rappresentante.

 

In risposta all’in secondo e all’in terzo luogo, va qui detto che:

- (art. 467, comma 1 c.c.) la rappresentazione fa subentrare i discendenti, nel luogo e grado del loro ascendente, in tutti i casi in cui l’ascendente non possa o non voglia accettare l’eredità o il legato;

- pertanto, è solo l’ascendente il “perno” dal quale possono derivare i discendenti. È solo l’ascendente colui che viene preso in considerazione dalla legge come soggetto che non possa o non voglia accettare l’eredità o il legato;

- il successivo art. 468, comma 1 c.c. non ripete la stessa regola dell’art. 467, comma 1 c.c. (altrimenti sarebbe una disposizione inutile) ma invece ha la finalità di specificare chi siano i soggetti che possono prendere il ruolo di discendente e di ascendente: poiché la rappresentazione opera a favore dei discendenti dei figli e a favore dei discendenti dei fratelli e delle sorelle del de cuius, il ruolo di discendente sarà preso da tutti i discendenti dei figli o da tutti i discendenti dei fratelli e delle sorelle del de cuius; il ruolo di ascendente sarà preso dai figli ovvero dai fratelli e dalle sorelle del de cuius.

 

In risposta all’in quarto luogo, va fatta una premessa. Il rappresentante (ossia, i discendenti del fratello o sorella ovvero i discendenti del figlio del de cuius) rappresentano esclusivamente il fratello o sorella ovvero il figlio del de cuius. L’art. 468, comma 1 c.c., nell’individuare i soggetti, come sopra riferito, è chiaro nel prendere in considerazione, quale “perno” cui agganciare l’operatività della rappresentazione, il fratello/sorella ovvero il figlio della persona defunta.

Pertanto, in combinato disposto con la regola per cui i discendenti possono essere anche di grado diverso (art. 469, comma 1 c.c.), ne deriva che, nel nostro caso, sia Meviolino sia Imino sono ambedue rappresentanti, rispettivamente, dei loro ascendenti, fratelli del de cuius (ossia, per Meviolino, Mevio; per Imino, Imio).

E allora non sussiste alcuna disparità di trattamento tra il discendente del discendente rinunciante e il discendente del discendente premorto, perché nel primo caso il discendente del discendente rinunciante non dovrebbe rappresentare il discendente rinunciante, ma sempre ed esclusivamente l’unico ascendente (il fratello del de cuius). Dunque, non esiste una disparità di trattamento rispetto al discendente del discendente premorto, il quale non rappresenta il discendente premorto ma sempre ed esclusivamente l’ascendente (l’altro fratello del de cuius).

Il motivo, piuttosto, per il quale il discendente del discendente rinunciante non può venire alla successione per rappresentazione è un motivo tecnico.

La rappresentazione fa venire alla successione (per c.d. delazione indiretta) il discendente del fratello del de cuius. Una volta che la delazione si concretizza in capo al discendente, è quest’ultimo il nuovo delato. Se, a sua volta, il discendente rinuncia, per l’operare della rappresentazione dovrebbero potersi verificare i presupposti soggettivi: il rinunciante dovrebbe essere un fratello o figlio del de cuius. Ma, non essendo questo il caso, proprio per l’art. 468, comma 1 c.c., il discendente rinunciante non può essere, a sua volta, essere rappresentato.

Che la delazione del rappresentante sia una delazione del tutto autonoma e sganciata da quella del rappresentato lo conferma l’art. 468, comma 2 c.c., a norma del quale: «I discendenti possono succedere per rappresentazione anche se hanno rinunziato all’eredità della persona in luogo della quale subentrano, o sono incapaci o indegni di succedere rispetto a questa».

La delazione del rappresentante è quindi una vera e propria delazione riferibile esclusivamente allo stesso. E una volta maturatasi (sussistendo la capacità di succedere rispetto al de cuius, ex art. 462 c.c.), essa diventa la delazione cui fare riferimento per applicare, se del caso, le norme sulla rappresentazione (cosa che non potrà farsi mancandone i presupposti soggettivi).

Mutatis mutandis, la delazione del discendente del discendente premorto è l’unica delazione che si concretizza in quella linea di discendenti, differentemente dall’ipotesi sopra vista del discendente del discendente rinunciante.

Infatti, proprio perché ex art. 462 c.c. il discendente premorto non ha la capacità di succedere all’ascendente (il fratello del de cuius) per rappresentazione, in forza dell’art. 468, comma 1 c.c. deve essere individuato il primo discendente capace di succedere che, nel nostro caso, corrisponde a Imino.

Nessuna disparità di trattamento, dunque.

 

In risposta all’in quinto luogo, va qui detto che la regola di cui all’art. 479, comma 2 c.c. è necessaria perché la trasmissione, a differenza della rappresentazione, non genera una delazione autonoma in capo ai trasmissari ma comporta semplicemente la successione a causa di morte della stessa delazione del trasmittente. In mancanza della regola legale, non si sarebbe potuto facilmente dire che, se uno dei trasmissari (tutti eredi del trasmittente) non vuole accettare l’eredità trasmessagli, la stessa si considera incamerata solo in capo all’accettante/i. Essendo la delazione – ripetesi – un bene ereditario, si sarebbe invece dovuto affermare l’ineludibile caduta nell’asse ereditario del trasmittente, e quindi a favore di tutti i trasmissari.

Nel nostro caso, invece, se si afferma – come si ritiene qui – che non possa operare la rappresentazione in capo al discendente del discendente rinunciante, la quota del discendente rinunciante sarà semplicemente oggetto di accrescimento a favore o del discendente appartenente alla stessa stirpe ovvero a quello appartenente ad altra stirpe (in caso di unico discendente di una stirpe) ovvero, addirittura, darà luogo alle successive chiamate ulteriori, secondo le volontà testamentarie ovvero le norme della successione legittima. Del punto si tratterà oltre.

 

In risposta all’in sesto luogo, va detto che questa obiezione “prova troppo”, in quanto, se presa fino alle estreme conseguenze, si dovrebbe considerare anche lo stesso figlio o fratello/sorella del de cuius, che sia rinunciante, come mai chiamato alla successione, con l’assurda conseguenza che allora non opererebbe mai la rappresentazione (art. 468, comma 1 c.c.), in quanto non ci sarebbe mai stato un chiamato che abbia rinunciato all’eredità (art. 467, comma 1 c.c.). Pertanto, la regola di cui all’art. 521 c.c. va letta insieme (v. infatti l’art. 522 c.c.) alle regole della rappresentazione, in quanto però ve ne siano i presupposti.

In risposta all’in settimo luogo, va detto che portare come argomento l’art. 522 c.c. varrebbe come petizione di principio. In tanto opera la rappresentazione in quanto ce ne siano i presupposti. Non è possibile, viceversa, dire che operi la rappresentazione perché… la norma richiede il rispetto dell’operare della rappresentazione. Prima, si cerca di capire quando possa operare la rappresentazione. Trovato ciò, allora potrà applicarsi l’art. 522 c.c., che fa salvo l’operare della rappresentazione.

 

Quanto alla politica legislativa, a parte la sua difficilissima ricostruzione, e l’inconsistenza scientifica, va anche detto che si scontra con plurime questioni tecniche (come affrontate sopra).

 

 

CONCLUSIONI

Posto che – come mi sembra – non esiste questa forma di rappresentazione “successiva”, e che, pertanto, il discendente del discendente rinunciante non viene chiamato alla successione (a sua volta) per rappresentazione, sembra opportuno spiegare a chi vada la quota del rinunciante.

 

Come è stato sopra indicato, la «rappresentazione fa subentrare i discendenti nel luogo e nel grado del loro ascendente».

Ragion per cui ai discendenti spetta la quota che sarebbe spettata al loro ascendente.

Pertanto, i discendenti prendono la quota come se fosse un unicum, in via solidale tra loro, divisa però in altrettante quote quanto siano le stirpi e, all’interno, i rami prodotti da ciascuno stipite (conformemente all’art. 469, commi 3 e 4 c.c.).

 

In buona sostanza, si fanno i seguenti esempi.

 

a) Tizio muore e lascia un fratello e due nipoti ex fratribus, figli di due fratelli premorti.

La quota di eredità spettante ad uno dei nipoti (un terzo, ex art. 570, comma 1 c.c.) è la stessa che sarebbe spettata al proprio ascendente (il fratello premorto).

Pertanto, in caso di rinuncia del discendente, senza che possa operare la rappresentazione (successivamente) a favore di eventuali discendenti del rinunciante, opererà il ricalcolo (o, per chi lo voglia, accrescimento) ex art. 522 c.c., con la conseguenza che i chiamati residui risulteranno delati per la quota di un mezzo cadauno.

 

b) Tizio muore e lascia un fratello, un nipote ex fratre figlio di un fratello premorto e altri due nipoti ex sorore, figli di una sorella rinunciante.

La quota di eredità spettante ad uno dei nipoti ex sorore è solo una frazione della quota spettante alla loro ascendente (la sorella rinunciante) che, complessivamente, viene offerta ai discendenti (ex art. 467, comma 1 c.c.).

In caso di rinunzia di uno dei nipoti ex sorore, la sua quota (pari ad un sesto, e quindi un mezzo della quota spettante alla sorella rinunciante, ex art. 570, comma 1 c.c.) si accresce (per effetto dello stesso meccanismo di vocazione solidale presente nell’accrescimento in senso tecnico ma che, anche in mancanza di una tal regola, sarebbe stato ricavabile per interpretazione) all’altro nipote ex sorore.

 

c) Tizio muore e lascia un nipote ex filio, figlio dell’unico figlio rinunciante.

Come emerge dall’art. 469, comma 2 c.c., anche in questo caso opera la rappresentazione.

Pertanto, chiamato all’eredità è il detto nipote ex filio.

Se anche questi rinunzia, coerentemente con quanto si è detto (e con quanto ulteriormente si dirà), non potrà nuovamente operare la rappresentazione a favore di un eventuale discendente del detto nipote ex filio. Lo impedisce l’art. 467 c.c.

Pertanto, si aprirà la successione legittima a favore di altri parenti (artt. 568 ss. c.c.).

Ciò è perfettamente coerente con l’impostazione della successione legittima.

 

Infatti, sebbene l’art. 565 c.c. enumeri i discendenti tra i parenti successibili, è negli articoli seguenti che viene indicato chi sono chiaramente questi successibili. Del resto, l’enumerazione dei discendenti serve proprio a tener conto dell’art. 467 c.c., che fa subentrare i discendenti nel luogo e grado del loro ascendente, e che si applica anche in caso di rappresentato che sia figlio (ove dunque i rappresentanti sono i nipoti). Ma ciò non consente di giustificare l’estensione dell’art. 566 c.c., facendo venire alla successione i discendenti ex filio a prescindere da una chiamata per rappresentazione (la quale ultima sussiste, come abbiamo visto, solo se ve ne siano i presupposti, che non sussistono in caso di discendente del discendente rinunciante).

Ciò, si badi, è formalmente diverso da quanto stabilito dall’art. 736 c.c. 1865 ma sostanzialmente uguale.

Infatti, nel vecchio art. 736 c.c. 1865 si stabiliva sì che «Al padre, alla madre e ad ogni altro ascendente succedono i figli legittimi o i loro discendenti […]», ma si è già ricordato che nel Codice civile del 1865 la rappresentazione non funzionava nel caso di rinuncia all’eredità da parte del rappresentabile (artt. 730 e 732 c.c. 1865: ossia, rispettivamente, i discendenti dei figli e i discendenti dei fratelli e delle sorelle del de cuius).

Pertanto, nella logica del 1865 è coerente stabilire che la successione legittima operi in favore dei discendenti, tenendo conto che la rappresentazione non scattava in caso di rinuncia del chiamato rappresentante (per es., il discendente del figlio premorto).

 

E allora, nel nostro sistema odierno, nel caso che il discendente del figlio premorto o rinunciante, a sua volta, rinunzi, non opererà il meccanismo della rappresentazione, non per qualche ingiustificabile disparità di trattamento (che invero non esiste) tra chi rinuncia e chi premuore (v. quanto risposto all’in quarto luogo, supra), ma perché, tecnicamente, la delazione del rappresentante non può essere, a sua volta, oggetto di successiva ulteriore rappresentazione, mancandone il presupposto soggettivo (la qualità di figlio o fratello/sorella della persona defunta).

 

Coerentemente, dunque, si aprirà la successione legittima in favore degli altri chiamati ulteriori.

 

Si badi, ciò neanche contrasta con l’art. 536, comma 3 c.c.

Questa disposizione, anche quando la si voglia far operare a prescindere dal meccanismo della rappresentazione (il caso più classico è quello del legittimario pretermesso o leso che non voglia agire in riduzione, senza che si prefiguri una chiamata ereditaria per la quale non voglia o non possa accettare), si regge comunque su un presupposto: che al discendente sarebbe spettato qualche diritto sulla successione nell’ambito della quale si vogliano far valere i diritti di riserva del proprio ascendente.

Quindi, ancora una volta, non è la disposizione a giustificare l’operato della rappresentazione, quanto la rappresentazione a poterne giustificare l’applicabilità. E, come si è visto, in questo caso l’operatività non sussiste, perché il sistema (art. 468, comma 1 c.c.) chiama in rappresentazione il discendente del figlio rinunciante o premorto, non anche, in via successiva, il discendente del discendente rinunciante.

 

Aggiornato il 26 marzo 2021

 

 

NOTE

[1] Tale espressione io ricondurrei a tutte (e solo) quelle posizioni giuridiche che, come l’usufrutto, siano intrasmissibili a causa di morte.

 

[2] L’uso del concetto della “sostituzione” è fatto in via non tecnica. Infatti, la sostituzione è uno degli altri meccanismi di chiamata all’eredità, che si affianca alla rappresentazione, e non è oggetto di queste parole. Si vuole allora parlare di “sostituzione” solo per meglio chiarire il concetto della rappresentazione, qui chiarito – si spera – in un senso abbastanza tecnico.

 

[3] La rappresentazione, istituto di sviluppo (nel corso del tempo non sempre rimasto uguale a sé) plurisecolare, opera anche per il caso in cui il chiamato non voglia accettare l’eredità o il legato, ma solo dal 1942, in quanto nel precedente Codice civile del 1865 (artt. 729 ss.) non veniva disciplinato il relativo caso. Anzi, l’art. 734 c.c. 1865, con una (a mio avviso) eleganza oggi rara da trovare in testi normativi, affermava: «Non si rappresentano le persone viventi, eccetto che si tratti di persone assenti o incapaci di succedere».

 

[4] Ulteriori considerazioni sull’esito della quota che sarebbe spettata a Meviolino saranno fatte dopo aver risposto alla domanda.